NEWS

INTERVISTA A SIMONE MASSI, REGISTA DI "INVELLE"

     Lunedì 18 novembre, alle 18:30 e alle 21, la rassegna Incontrocampo presenterà Invelle di Simone Massi. Il Collettivo Cinema Sala 4, che dal 2018 organizza la rassegna, ha raggiunto via mail il regista, uno dei principali animatori europei, e gli ha rivolto alcune domande sul suo film, sulla sua opera, sulle sue fonti di ispirazione. Ne è uscito un ritratto artistico e umano di grande ricchezza e complessità, che siamo felici di condividere con tutti voi. Buona lettura.

 

 

     Invelle è un lungometraggio, ma hai scelto di raccontare comunque tre storie separate, anche se collegate tra loro. Il film l’hai pensato  da subito in questa forma, o sei partito da una delle tre storie, e solo in un secondo momento ti sei accorto che potevi e volevi sviluppare un discorso più ampio, e hai aggiunto le altre due? Oppure, al contrario, ne avevi molte di più, e hai dovuto operare una selezione? 
     Il film aveva questa forma già nel primissimo soggetto, scritto nel 2012. Non ricordo esattamente perché l’abbia concepito in questo  modo. C’era indubbiamente la volontà di mettere tre bambini in un contesto difficile, di guerra, ma probabilmente avrà inciso anche il cercare di limitare il salto fra la forma breve e quella – per me nuova e piena di incognite – del lungometraggio.

 

     In realtà hai già lavorato in un lungometraggio, realizzando le scene di animazione per La strada dei Samouni di Stefano Savona. È stata un'esperienza che ripeteresti, quella di collaborare al lavoro di qualcun altro, e che ti ha soddisfatto? E ne hai ricavato qualcosa che  poi ti è stato utile per questo film?
     Quella de La strada dei Samouni è stata un’esperienza utilissima perché è stata la prima volta, dopo una vita passata a disegnare in solitaria, che mi ritrovavo a far parte di una squadra. L’incontro, il confronto con le colleghe e i colleghi, la trasmissione della tecnica, del  metodo di lavoro, il dialogo quotidiano... è stato bello e importante, sul piano umano ancor prima che su quello professionale. Al punto che senza questa esperienza molto probabilmente Invelle non sarebbe mai nato.

 

     Molti dei tuoi lavori fanno riferimento alla storia, alla Resistenza, alla civiltà contadina. Hai mai desiderato creare un’opera di pura  finzione, sfruttare le potenzialità dell’animazione per dare vita a un mondo per certi versi indipendente da quello “reale”?
     Invero no, sono troppo legato alla Storia e alle storie per lanciarmi in un’operazione del genere. L’ho sempre detto con grande onestà,  non riesco ad andare oltre quelle due tematiche, Resistenza e civiltà contadina, appunto. Quello che cerco di fare, semmai, è spezzare il  realismo con elementi e interventi di immaginazione pura, che riguardano la regia, il suono e l’immagine, con soggetti in continua evoluzione, lasciati liberi di mutare forma.

 

     Parlando di Invelle, hai dichiarato che hai scelto di ambientare il film in quel periodo (tra il 1918 e il 1978) perché ritieni che sia stata l’epoca più importante nella nostra storia nazionale, e che dagli anni Ottanta in poi l’Italia sia tornata indietro. Questo punto di vista, unito alla tua predilezione per i racconti legati alla civiltà contadina, mi fa pensare un po’ a Pasolini, per cui ti chiedo: ti ritieni in qualche misura un conservatore, un tradizionalista, se non un pessimista?
     È un discorso lungo e complesso. I miei lavori sono cupi, malinconici, nostalgici e via discorrendo. Se mi si deve giudicare per quello che racconto sono probabilmente conservatore, tradizionalista e pessimista. Fingendo di accettare appieno il giudizio posso provare a spiegarmi, dicendo che a fronte di indiscutibili progressi rispetto al passato (comodità, medicina, tecnica, tecnologia, ecc.) ci sono stati netti peggioramenti per quel che riguarda molti altri aspetti importanti (cibo, aria, malattie, ambiente, diritti, libertà individuale e di stampa, ritmo di vita e una vita sociale che ha lasciato il posto a una solitudine che negli anni è diventata cronica, patologica, pericolosa). Mi pare sia opinione largamente diffusa, visto che da diversi decenni tutti concordano nel prevedere un futuro a tinte fosche (in alcuni casi  apocalittico) per l’umanità e per il nostro pianeta. Siano futurologi, ambientalisti, scienziati, scrittori e registi di fantascienza, persone comuni: non ne conosco uno che, riguardo al futuro, si senta di tranquillizzarci riguardo al futuro dell’uomo e del pianeta. Vivo in quest’epoca e ne risento, come tutti.

     Ma non può essere solo e soltanto questo, altrimenti smetteremmo di vivere e di fare figli. È un discorso lungo e complesso, l’ho detto. A volerlo fare breve: c’è una parte di me, che soffre dell’epoca attuale e si aggrappa ai sogni e ai fantasmi che poi danno luogo ai film. Ma io non sono solo il lavoro che faccio, c’è una parte contraria, solare e scanzonata, che ogni giorno scende in strada a giocare con i bambini, che siede sulla panchina ad ascoltare gli anziani, che accarezza e parla agli animali. Una parte indomita, ottimista, rivoluzionaria, che ci crede ancora e ci crederà sempre.

 

     “Invelle”, in dialetto marchigiano, significa “in nessun posto”. Ti riferisci all’Italia del passato, che non c’è più, oppure questo “non luogo”  potrebbe essere (anche) l’Italia del presente, priva di direzione proprio nella misura in cui ha dimenticato o sta dimenticando la sua storia?
     La chiave di lettura mi pare insieme giusta e condivisibile. Ma il titolo pensato per il film voleva più che altro riferirsi ai piccoli borghi e  territori perlopiù collocati nell’entroterra, alle tante “Fontamara”, un tempo bollate cinicamente come “zone depresse”. Una sorta di referto medico, quasi a sottintendere che la colpa e l’eventuale cura sono da considerarsi a carico di certe terre e di chi le calpesta. A me pare invece che le responsabilità siano da cercare altrove e che si tratti a tutti gli effetti di luoghi, paesi e cittadini dimenticati dallo Stato e  abbandonati a sé stessi, per motivi economici. Posti dove le persone sanno perfettamente di contare poco o niente al punto che, nel dialetto e nel parlato, il tempo futuro non c’è, non esiste.

 

     Zelinda, la bambina protagonista del primo capitolo del film, ha lo stesso nome della persona a cui era dedicato uno dei tuoi corti più noti e premiati, Dell’ammazzare il maiale. Possiamo supporre, senza essere indiscreti, che si tratti di una tua parente, magari una nonna?  E anche gli altri due nomi, Assunta e Icaro, hanno un significato o una risonanza particolare per te?
     Nessuna indelicatezza, ci mancherebbe. Zelinda era mia nonna ed è stata, fra le tante cose, una donna molto buona e dolce. Ha avuto una vita di privazioni, di lutti e di stenti e mai un grido di rabbia, mai un lamento. Una contadina, una maestra senza scuola, la migliore che potessi avere. Assunta è mia mamma, Icaro è il mio secondo nome. Ciò detto ripeto: la vita non va confusa con il lavoro. Un film di finzione, lo dice il nome, è già menzognero di suo. In un film di animazione poi, la verità deve obbligatoriamente lasciar posto all’immaginazione e alle sognerie. Un film è un film, le cose false sono molto di più di quelle vere.

 

     Parlando dei tuoi autori di riferimento hai citato scrittori come Pavese, e cineasti come Tarkovskij e Angelopoulos, che operavano spesso in regioni ai confini tra la storia e il mito, mescolando poesia e politica: e il tuo stile di animazione, che fa spesso uso del piano-sequenza, come i due registi citati, e di zoom in avanti e all’indietro, sembra voler racchiudere in un solo sguardo piani temporali e spaziali differenti, il grande e il piccolo, il dettaglio e il quadro generale. Ci sono invece pittori o disegnatori che ritieni abbiano influenzato, anche non direttamente, la tua poetica e il tuo stile?
     Resistenza e mondo contadino per le tematiche, Pavese e Calvino come riferimenti letterari, Tarkovskij e Angelopoulos per il cinema, Giotto e Piero Della Francesca per la pittura, Toppi e Trevisan per il fumetto: quale che sia la ragione è evidente che non so andare oltre il paio. Fa eccezione la musica dove di riferimenti ne ho a decine: Jesus and Mary Chain, Screaming Trees, Violent Femmes, Nick Cave and the Bad Seeds, Dinosaur Jr., Ride, Pixies, Miracle Workers, Smiths, Hüsker Dü, Spacemen 3, Thin White Rope...

 

     Appurato il tuo interesse per il passato, voglio chiederti: ci sono artisti, in qualunque campo e a qualunque latitudine, che ti sembra  abbiano trovato un modo efficace per raccontare il nostro presente?
     Da quel che so la quasi totalità degli autori racconta il presente. Che venga fatto in modo efficace o meno posso provare a dedurlo unicamente dai numeri, dal successo che ottengono, visto che non ho molto interesse nei confronti della questione. In primo luogo perché l’epoca mia la conosco e non sento il bisogno che qualcuno me la spieghi. In seconda battuta perché l’epoca attuale scorre talmente veloce che quel che si produce e dice oggi diventa vecchio e superato nel giro di poche settimane o giorni. Infine, ad essere franchi, il mio presente è molto diverso da quello di chi abita a Roma, Parigi, Milano, New York. Nel 1987 Morrissey e gli Smiths ci invitavano provocatoriamente ad impiccare i deejay perché le canzoni che mettevano non dicevano NIENTE riguardo alla nostra vita.

     Senza spingermi a tanto: immagino sia una questione di sensibilità, lealtà, portafoglio. In un certo senso di “latitudine”, cioè della e dalla parte in cui abbiamo deciso di stare. Del futuro si è già detto, è unanime la previsione catastrofica e non ho nessunissima voglia di farmi il sangue cattivo. Per cui, per quelli come me, non rimane che indagare il passato, in particolare quello che abbiamo sentito dai racconti di chi in questa vita ci ha preceduto. Al di là dell’esattezza delle informazioni, delle amnesie e delle idealizzazioni, è importante l’atto in sé, perché prevede una persona che racconta e (almeno) una che ascolta, che cerca, che scava, che prova a salvare. Sono cresciuto ascoltando, l’oralità mi ha permesso di immaginare e ricordare insieme, di diventare a mia volta narratore.

 

     La nostra rassegna lavora, fra le altre cose, per scardinare l’idea secondo cui il cinema di animazione è destinato solo o principalmente ai bambini - idea ancora molto diffusa, soprattutto tra il pubblico di una certa età. Ti senti di consigliare ai nostri spettatori i nomi di alcuni animatori contemporanei, italiani o internazionali, che ammiri (e che magari ti piacerebbe fossero più conosciuti)?
     Sì, me la sento, mettendo in conto i tanti che inevitabilmente sto dimenticando. Fra quelli che ricordo: Frédérick Back, Jurij Norštejn, Aleksandr Petrov, Piotr Dumala, Jerzy Kucia, Georges Schwizgebel, Manfredo Manfredi, Nico Bonomolo, Magda Guidi e Mara Cerri, Julia Gromskaya.

 

     Per concludere: che tipo di spettatore cinematografico sei? Cosa cerchi in un film?
     Sono uno spettatore molto esigente, complicato. Gli unici film che mi interessano sono quelli che mi fanno perdere l’orientamento, storie e imbrogli in cui mi ritrovo dentro senza sapere perché e percome. Una barca in mezzo alla tempesta, una corrente che mi trascina e mi toglie riferimenti e comodità, mi impedisce di vedere e sentire alla stessa maniera degli altri spettatori. Voglio essere costretto a metterci del mio, facendo “lavorare” la mente, il cuore e i sensi, fino a far diventare mio il film stesso. E nel momento in cui succede, nel momento in cui comincio a governare la nave e a capirci qualcosa, spero sempre che il regista arrivi a togliermi il terreno sotto ai piedi o mi sollevi in alto, nel cielo. Che riguardino dialoghi, sceneggiatura, montaggio o inquadrature, l’importante è che il regista sussurri, accenni, menta, inganni, inviti all’azione, spenga le luci, lasci dei vuoti da riempire. Il cinema che ha un senso è quello che ti fa uscire dalla sala turbato, toccato, trafitto, a pezzi.



Iscriviti alla nostra newsletter
Dichiaro di aver letto e accettato l'informativa sulla privacy